Facebook e l’odio online: a love story

In questi giorni negli Stati Uniti si sta molto parlando della lettera di dimissioni di Ashok Chandwaney. L’ingegnere informatico ha abbandonato il proprio impiego dopo 5 anni e mezzo in Facebook. E ha avuto parole al vetriolo per la sua vecchia azienda: “Un’organizzazione che approfitta della diffusione dell’odio negli USA e in tutto il mondo”.
Le argomentazioni di Chandwaney sono solide e circostanziate. Secondo l’ingegnere, quanto detto da Zuckerberg durante la sua audizione al Congresso americano – tutti ricordiamo la sua faccia livida e l’occhio spiritato – riguardo alle politiche di contrasto di fake news e hate speech, sono rimaste parole al vento. In realtà Facebook promuove volontariamente e sistematicamente questo tipo di contenuti, per ingraziarsi la fetta di pubblico che va dal cospirazionismo di Qanon fino all’aperta esaltazione del nazi-fascismo. Segue un elenco di casi esemplari. Dal tristemente famoso “when the looting starts, the shooting starts” di Trump (ancora presente sulla piattaforma: un’aperta istigazione alla violenza da parte del Presidente Usa) fino alla mancata rimozione della pagina dei suprematisti bianchi dalla quale è nata la sparatoria di Kenosha.
La leggenda che Facebook sia troppo grande per essere controllato è secondo Chandwaney, appunto, soltanto una leggenda. Se l’azienda di Palo Alto dedicasse a questo problema una frazione dell’impegno che impiega nella risoluzione dei bug, la battaglia potrebbe essere vinta facilmente. Ma non è questa la volontà ai piani alti.

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